Studio legale Pastrengo

INFORTUNIO SPORTIVO IN GARA O IN ALLENAMENTO: Responsabilità di Arbitri e Tecnici

Infortunio sportivo in gara e in allenamento: responsabilità di arbitri e tecnici

di Marcello G. Pastrengo 11/2013

(su: https://www.altalex.com/documents/news/2013/11/13/infortunio-sportivo-in-gara-e-in-allenamento-responsabilita-di-arbitri-e-tecnici)

Proprio come uno specchio che riflette le immagini senza distorsioni, come in una tranquilla vallata che rimanda l’eco, così uno studente di karate deve purgare se stesso da pensieri egoisti e malvagi poiché solamente con una mente ed una coscienza chiara e limpida egli potrà capire ciò che sta ricevendo.”

(Gichin Funakoshi)


Sommario:


1. Lo sport nella Costituzione Italiana

Che lo sport abbia sempre avuto una importanza nella vita degli uomini, sia come espressione di prestazione individuale, sia come aspetto sociale e collettivo lo si evince lo si evince anche dall’interpretazione di vari riferimenti contenuti in diversi articoli della Costituzione .

La nostra Costituzione sancisce infatti la tutela di quei valori fondamentali strettamente connessi allo sport e riconosce che la cultura e le pratiche sportive costituiscono uno strumento di promozione umana e sociale.

L’art. 2 (Cost.) sancisce ad esempio la tutela dei diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolga la sua personalità.

In particolare l’art. 32 (Cost.), stabilendo che la Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, riconosce allo sport l’importante finalità di mantenere l’integrità fisica di ogni cittadino. Si tratta di una disposizione che ha certamente condizionato la politica del CONI e di tutte le Federazioni Sportive in merito, ad esempio, all’introduzione dei controlli anti-doping .

Lo Stato garantisce poi al cittadino “la libera iniziativa nella pratica sportiva sotto il profilo educativo, agonistico e anche di spettacolo” ed assicura contemporaneamente interventi nell’istruzione (cfr. art. 35 Cost.) e nella tutela della salute pubblica.

Altri riferimenti sono contenuti anche nell’art. 18 (Cost.), che tutela la libertà di associazione dei cittadini e assicura la tutela nella forma associativa e, in qualche misura, anche nell’art. 33 (Cost.) che garantisce la libertà di insegnamento e rileva il profilo formativo ed educativo che può essere riservato allo sport…”

La Carta Costituzione prevede poi un ordinamento sportivo ([1]) e ne attribuisce la relativa disciplina, legislativa e regolamentare, allo Stato e alle Regioni, riservando al primo il compito di definire i principi fondamentali, alle seconde la concreta gestione della disciplina.

La pratica sportiva rientra anche tra quei diritti inviolabili di ogni uomo, non solo a livello individuale e nelle formazioni caratterizzate da una pluralità di soggetti, ma anche nella sua forma di associazionismo sportivo, inteso come tipico strumento utilizzato per svolgere, in forma associata e organizzata, attività sportiva (cfr. artt. 36 e ss del codice civile).

2. Lo sport nei documenti dell’Unione Europea

Il Consiglio d’Europa con la “Carta Europea dello Sport per Tutti” (adottata nel 1974) stabilisce che “chiunque ha il diritto di praticare lo sport (art.1) e che “lo sport, in quanto fattore importante dello sviluppo umano, deve essere incoraggiato e sostenuto in maniera appropriata con finanziamenti pubblici” (art.2).

La Carta Europea dello Sport (Rodi 1992) definisce poi lo sport: “qualsiasi forma di attività fisica che, attraverso una partecipazione organizzata o non, abbia per obiettivo l’espressione o il miglioramento della condizione fisica e psichica, lo sviluppo delle relazioni sociali o l’ottenimento di risultati in competizioni di tutti i livelli” (art.2, I comma).

Successivamente il Trattato di Lisbona del 2007 (ratificato in Italia con la L. 130/2008) attribuisce allo sport una preminente funzione sociale, considerandolo, al pari dell’istruzione e della formazione professionale, un elemento fondamentale per l’equilibrata crescita psico-fisica di ciascun individuo.

3. La responsabilità civile nello sport

Chi svolge un’attività sportiva ha diritto ad essere tutelato negli eventi che possono verificarsi durante lo svolgimento di tale attività, sia amatoriale, sia agonistica.

Lo Stato tutela e promuove lo sport – ed ha infatti istituito un ente pubblico ad hoc (il CONI) con legge 16 febbraio 1942 – ed incoraggia il soddisfacimento dell’interesse generale della collettività a svolgere attività sportiva per il potenziamento fisico dei giovani e meno giovani (cfr. Cass. Sez. IV pen. n. 2286/2000 in Guida al diritto n. 18/2000, pagg. 79 ss).

Rileva dunque la funzione altamente educativa dello sport, soprattutto agonistico, sotto forma non solo di cultura fisica, ma di educazione del giovane praticante al rispetto delle norme ed all’acquisizione della regola di vita secondo cui il conseguimento di determinati obiettivi è possibile solo attraverso l’applicazione, il sacrificio e l’allenamento e, soprattutto, deve essere il risultato di tali componenti, senza callide o pericolose scorciatoie.

Soltanto in tale prospettiva lo sport può diventare anche formidabile palestra di vita, preparando i giovani ad affrontare, con lo spirito giusto, la grande competizione della vita che li attende e per la quale saranno, certamente, meglio attrezzati ove interiorizzino valori come sacrificio, applicazione, rispetto delle regole e del prossimo.

Funzionale al perseguimento di questi valori è il principio di lealtà e di rispetto dell’avversario, codificato mediante regole tassative che ciascun atleta, al momento del tesseramento, accetta consapevolmente, impegnandosi alla rigorosa osservanza, a pena di specifiche sanzioni.

In base a tali principi generali, al di là delle regole del gioco o dei regolamenti arbitrali, l’atleta ha sempre il dovere di adeguare la propria condotta anche a norme generali di prudenza e diligenza, dovendo la pratica sportiva essere controllata in ogni momento e, per quanto può essere consentito dalle specifiche finalità agonistiche, dal senso vigile ed umanitario del rispetto dell’integrità fisica e della vita, sia dell’avversario, sia dei terzi (cfr. Cass. Sez. II 9.10.1950 – Fabbro).

Non a caso tutti i Regolamenti delle Federazioni sportive annoverano tra i principi fondamentali quello della lealtà e della correttezza, che costituisce valore fondante di ciascun ordinamento.

4. Il Regolamento d’Arbitraggio per le gare di Karate della World Karate Federation – Federazione Mondiale Karate – integrato con il Regolamento FIJLKAM; cenni

La Federazione ha compiuto un grande sforzo nel contemperare le caratteristiche di uno sport come il karate, che è caratterizzato, specie nel “kumite” o combattimento, da una confronto diretto tra due avversari, il cui esito è subordinato alla prevalenza di uno dei due sull’altro, in termini di tecnica, potenza, “kime”, velocità, consapevolezza e concentrazione.

Numerosi sono i riferimenti normativi/regolamentari finalizzati proprio alla salvaguardia dell’incolumità psico-fisica dei contendenti, secondo il principio generale del “neminem laedere”.

Si pensi, ad esempio, alle seguenti disposizioni:

a. sull’”area di gara”: all’utilizzo di tappeti antiscivolo nella parte a contatto con il pavimento, ma con un basso coefficiente di attrito nella parte superiore (cfr. art. 1);

b. sull’”abbigliamento degli atleti”: al divieto di indossare fermacapelli e/o oggetti metallici, all’obbligo di avere le unghie corte (vale anche per gli UdG) (cfr. art. 2) e all’obbligo di indossare le protezioni (guantini, paratibia, paracollo del piede, paraseni, conchiglia, corpetto e, per la categoria degli esordienti “B” – ragazzi di circa 14-15 anni – anche la maschera facciale) (cfr. artt. 2 e 6);

c. sull’”organizzazione delle gare”: alla gestione dei combattimenti individuali secondo le categorie di peso (cfr. art. 3);

d. sul “punteggio”: all’obbligo di controllare adeguatamente le tecniche e di indirizzarle esclusivamente verso determinate parti del corpo (testa, viso, collo, addome, petto, schiena e fianco), mantenendo sempre la distanza minima di 5 o 10 cm dalla testa, dal viso e dal collo dell’avversario oppure vietando qualsiasi contatto con la gola;

e. sui “comportamenti proibiti”: all’articolata elencazione dei comportamenti non ammessi o addirittura del tutto proibiti (cfr. art. 8) ed ai conseguenti avvertimenti e penalità (cfr. art.9);

f. sulle “lesioni e infortuni durante la gara”: alle precise disposizioni in ordine all’intervento del Medico ed alla irrevocabilità delle sue decisioni.

Nei Regolamenti tutt’ora in vigore, viene infine espressamente ribadito che “a fondamento del karate vi è una regola che esprime i valori fondanti della società moderna, come il rispetto degli altri, che si traduce in “autocontrollo dei comportamenti (“giusto contegno”), rispetto delle regole e controllo dei colpi”, affinchè “le azioni non possano mai nuocere alla salute dell’avversario”, collocando sempre il combattimento “sul piano di un simbolico realismo”.

Naturalmente sia gli Istruttori, sia gli atleti devono conoscere a perfezione i Regolamenti di Gara che, a loro volta, gli Arbitri e gli Ufficiali di gara, sono chiamati a far rispettare, vigilando costantemente sul regolare svolgimento della manifestazione sportiva, in virtù del potere/dovere a loro affidato dallo specifico ordinamento sportivo di accertare, valutare e sanzionare le infrazioni commesse.

Per questa loro attività nel corso della competizione Arbitri e Ufficiali di Gara sono infatti qualificati come organo di giustizia tecnica e sono tenuti a dirigere la gara affinché si svolga nel rispetto dei principi generali di lealtàcorrettezza e parità competitiva, che sono i cardini portanti della materia sportiva.

Naturalmente anche gli organizzatori delle competizioni, i Maestri, gli Istruttori, gli Allenatori, così come i “direttori di gara”, devono a loro volta controllare che tutti gli atleti rispettino con puntualità e diligenza anche le “regole del gioco”, sia durante le competizioni, sia e soprattutto, come vedremo più avanti, durante le esibizioni e gli allenamenti.

Tuttavia può sempre capitare un evento dannoso in occasione di attività sportive che causa una lesione e genera la c.d. “responsabilità civile sportiva”, alla quale sia la dottrina, sia la giurisprudenza hanno cercato di fornire una definizione precisa.

5. La responsabilità civile

Responsabilità deriva dal latino “respondeo”, cioè “rispondo”, e “responsabile” è colui che risponde delle conseguenze derivanti da evento o da un comportamento.

La “responsabilità” implica anche una risposta dell’ordinamento giuridico alla violazione di una norma civile o penale, così che la “responsabilità civile” sussiste allorchè vi sia stata la violazione di una norma civile e comporta il risarcimento del danno eventualmente provocato; mentre la responsabilità penale, come vedremo in seguito, è conseguente alla violazione di una norma penale e comporta l’applicazione di una sanzione penale.

Per “responsabilità civile” si intende, dunque, il fenomeno giuridico che obbliga colui che ha commesso il fatto lesivo a risarcire il danno e ci si riferisce tanto alla responsabilità contrattuale, quanto a quella contrattuale.

La “responsabilità civile si configura pertanto quando si è responsabili di un fatto – cioè di una condotta commissiva od omissiva – che abbia causato danni a terzi e la legge, in questo caso, prevede il risarcimento della controparte.

6. Il danno

Il danno da risarcire consiste in:

  1. danno patrimoniale, che si verifica quando si è determinata una diminuzione del patrimonio del danneggiato e
  2. danno non patrimoniale che consiste nella lesione di interessi giuridicamente rilevanti e attiene alle sofferenze patite dal danneggiato alla sua vita di relazione e/o alla sua salute.

7. La responsabilità contrattuale

La responsabilità contrattuale è la responsabilità derivante dall’inadempimento o dall’inesatto adempimento o dall’adempimento tardivo di una preesistente obbligazione quale che ne sia la fonte (ad esclusione del fatto illecito); ciò significa che nel nostro ordinamento ogni obbligazione assunta con contratto deve essere adempiuta secondo criteri di correttezza e diligenza, pena il risarcimento del danno (cfr. art. 1218 c.c. ([2])).

V’è da dire che l’istruttore di karate non ha con l’allievo un rapporto contrattuale, bensì associativo; tuttavia la Cassazione ha stabilito che nel caso di danno cagionato dall’alunno (dall’allievo) a se stesso (o ad altri), la responsabilità dell’istituto (dell’associazione) e dell’insegnante (istruttore) non ha natura extracontrattuale, bensì contrattuale, atteso che l’accoglimento della domanda di iscrizione, con la conseguente ammissione dell’allievo, determina l’instaurarsi di un vincolo negoziale, dal quale sorge l’obbligazione di vigilare sulla sicurezza ed incolumità dell’allievo stesso (cfr. Cass. Civ, SS.UU., sentenza n. 9346/2002).

La responsabilità del “sorvegliante” per il danno cagionato dal fatto illecito del minore trova fondamento, a seconda che il minore sia o meno capace di intendere o di volere al momento del fatto, rispettivamente nell’art. 2048 del codice civile ([3]), in relazione ad una presunzione iuris tantum (cioè suscettibile di prova contraria), di difetto di educazione o di vigilanza, ovvero nell’art. 2047 del codice civile ([4]), in relazione ad una presunzione, anch’essa iuris tantum, di difetto di sorveglianza e di vigilanza: le due indicate ipotesi di responsabilità presunta, pertanto sono alternative e non concorrenti tra loro, in dipendenza dell’accertamento, in concreto dell’esistenza di quella capacità (cfr. Cass. Civ. sent. n. 2606/97).

Circa l’onere probatorio l’allievo danneggiato che decide di agire in giudizio per ottenere il risarcimento dovrà soltanto provare che il danno si è verificato nel corso dello svolgimento del rapporto, mentre l’insegnante dovrà dimostrare che l’evento dannoso è stato determinato da causa a lui non imputabile o da caso fortuito.

Tuttavia l’insegnante non sarà tenuto al risarcimento del danno (solo) se dimostrerà di aver provveduto alla vigilanza degli allievi con la dovuta diligenza, adottando le misure organizzative e disciplinari idonee ad evitare situazioni di pericolo (ad esempio facendosi sostituire da un altro istruttore qualora debba allontanarsi) ed utilizzando ogni accorgimento utile per evitare eventuali incidenti.

8. La responsabilità extracontrattuale

Qualunque fatto “doloso” o “colposo” che cagioni ad altri un “danno ingiusto”, obbliga colui che ha commesso il fatto a risarcire il danno (cfr. art. 2043 codice civile ([5])); perché il fatto “illecito” sia fonte di obbligazione ai sensi dell’art. 2043 cod. civ., occorre che il danno sia “ingiusto”, cioè derivi dalla lesione di un interesse tutelato da una norma giuridica che abbia attribuito a tale interesse natura di diritto soggettivo; occorre, poi, che il danno sia conseguenza immediata e diretta del fatto illecito (cfr. Cass., VI sez.pen., sent. n. 8133 del 12 luglio 2000).

Esamineremo in seguito le nozioni di “dolo” e di “colpa” e di “danno ingiusto”.

Si può sin d’ora precisare che ai fini dell’esclusione della “colpa” in capo all’istruttore di karate e conseguentemente l’insorgere, in capo al medesimo, della responsabilità extracontrattuale, è possibile, ma è più esatto dire indispensabile, dimostrare di aver agito con diligenza, prudenza perizia.

Il dovere di vigilanza degli Istruttori , da cui deriva una sorta di “culpa in vigilando” in caso di danni per fatti illeciti dei loro allievi (minorenni), va poi commisurato all’età ed al grado di maturazione/esperienza raggiunto da essi allievi in relazione al caso concreto ed è da ritenersi esclusa oltre il limite temporale della minore età del danneggiato.

9. L’illecito sportivo e la responsabilità penale

La nozione di “illecito sportivo” è stata ritagliata proprio sulla base dei principi di lealtàcorrettezza e rispetto dell’avversario, con riferimento all’inosservanza sia dei canoni di condotta generalmente previsti per ciascuna disciplina, sia delle specifiche “regole di gioco” che devono essere osservate nell’agone sportivo e che compongono la parte tecnica del regolamento di ciascuna Federazione e, in particolare della “World Karate Federation-Federazione Mondiale Karate”, integrato con il “Regolamento Fijlkam” del quale ho brevemente accennato.

Tale nozione di “illecito sportivo” ricomprende tutti quei comportamenti che, pur sostanziando infrazioni delle regole che governano lo svolgimento di una certa disciplina agonistica, non sono penalmente perseguibili, neppure quando risultano pregiudizievoli per l’integrità fisica di un giocatore avversario, in quanto non superano la soglia del c.d. rischio consentito. Si tratta di un’area di non punibilità, la cui giustificazione teorica non può che essere individuata nella dinamica di una condizione scriminante (cfr. Cass. Sex V pen., sentenza n. 19473/2005).

Solo il superamento di tale soglia rende i comportamenti lesivi perseguibili penalmente a titolo di “dolo” o di “colpa”.

Si ha dunque “illecito sportivo” quando si violano le regole tecniche della disciplina sportiva praticata; si viola cioè il cosiddetto il rischio consentito; l’uso della forza è spropositato in rapporto al tipo di sport praticato, alla natura della gara (professionista o amatoriale, amichevole o ufficiale).

10. Il “rischio” sportivo “consentito”

L’esercizio dell’attività sportiva viene generalmente considerata una causa di giustificazione e cioè di esclusione dell’antigiuridicità in relazione a fatti che di per sé configurerebbero ipotesi di reato, ma va condizionata, come vedremo più avanti, al rispetto dei “Regolamenti tecnici” e delle norme disciplinanti ciascuna attività; come ho già avuto modo di precisare è sempre richiesto all’atleta di adeguare la propria condotta anche a norme generali di prudenza e di diligenza, dovendo qualsiasi pratica sportiva, anche e soprattutto quella del karate, essere controllata in ogni momento e, per quanto possa essere consentito dalle specifiche finalità agonistiche (pensiamo allo “skin touch” con i “jodan-geri”, cioè i calci diretti alla testa, al viso o al collo), dal senso vigile ed umanitario del rispetto dell’integrità fisica e della vita sia dell’avversario, sia dei terzi (Cass. sez. II, 9/10/1950 – Fabbro).

“In altre parole il fatto lesivo non può e non deve mai essere conseguenza di colpi inferti per dolo o per colpa, come, per esempio, nei casi in cui l’esercizio dello sport divenga solo l’occasione per ledere volontariamente l’avversario ovvero per l’esplicazione di una violenza eccessiva, ulteriore a quella c.d. “di base” necessaria per lo svolgimento dello sport.” (cfr. Cass.sez. IV Pen. – Sent. n. 2286/2000).

In passato la giurisprudenza prevalente si era orientata sulla sussistenza della scriminante dell’esercizio dell’attività sportiva, richiamando per lo più la regola comune del consenso dell’avente diritto, scriminando però solo le conseguenze lesive rientranti nell’ambito del c.d. “rischio consentito”, qualificato non tanto dal rispetto delle regole del gioco, quanto piuttosto dalla “normalità” del comportamento degli atleti (seppur falloso) rispetto alle specifiche caratteristiche della attività sportiva praticata (cfr. Cass. pen. sez. V, 30 aprile 1992, in Cass. pen., 1993, pag. 1726).

Dopo il 2000, diversamente, viene considerato rilevante il rischio consentito tutt’al più basandosi su una indagine sugli aspetti psicologici dell’atleta (e sulle modalità di verificazione del fallo di gioco) e staccandosi dalla riconducibilità alla esimente del consenso dell’avente diritto, poiché costruisce la scriminante riguardante l’esercizio dell’attività sportiva dando rilevanza penale assoluta ed indiscriminata alle condotte fallose volontarie poste in essere durante la competizione sportiva: queste, se lesive della vita o dell’integrità fisica dell’avversario, comporteranno sempre e comunque la responsabilità per i reati di cui agli articoli 589 e 590 del codice penale (rispettivamente omicidio colposo e lesioni personali colpose) (cfr. Cass. sez. IV Pen. – Sent. n. 2286/2000).

L’area del “rischio consentito” coincide inequivocabilmente con quella delineata dal rispetto delle “regole di gioco” contenute nei Regolamenti che individuano, secondo una preventiva valutazione, il limite della ragionevole componente di rischio di cui ciascun praticante deve avere piena consapevolezza sin dal momento in cui decide di praticare, in forma agonistica, un determinato sport.

Tali “regole tecniche” mirano, infatti, a disciplinare l’uso della forza e/o della violenza, intesa come energia fisica positiva o “kime”, tale in quanto spiegata – in forme corrette – al perseguimento di un determinato obiettivo, conseguibile vincendo la resistenza dell’avversario (come per esempio nel bunkaio penetrando nella difesa dell’avversario (come per esempio nel kumite) (cfr. Cass.sez. V Pen., sent. n. 19473 del 20 gennaio-23 maggio 2005).

Posto che l’uso della forza fisica/energia può in qualunque momento essere causa di pregiudizi per la salute e l’integrità dell’avversario che cerchi di opporre regolare azione di difesa, contrasto e/o contrattacco, il rispetto del “Regolamento” segna il discrimine tra lecito ed illecito in chiave sportiva.

V’è però da dire che neppure in ipotesi di violazione di quelle norme, tale da configurare “illecito sportivo”, viene travalicata l’area del rischio consentito, ove la stessa violazione dei regolamenti non sia volontaria, ma rappresenti piuttosto lo sviluppo fisiologico di un’azione che, nella concitazione o trance agonistica (ansia del risultato), può portare del tutto involontariamente alla elusione delle regole anzidette.

In altri termini il giocatore che sia stato comunque rispettoso delle regole del gioco, del dovere di diligenza nei confronti dell’avversario e della integrità fisica di costui, commette un illecito sportivo, ma non è perseguibile penalmente, poiché in siffatta ipotesi non può dirsi superata la soglia del rischio consentito, in quanto è dato di comune esperienza che nel corso di una gara l’ardore agonistico, l’ansia di risultato, la stanchezza fisica e la carica agonistica, talvolta eccessiva, possono comportare a violazioni non volontarie del regolamento di gara.

Vi sono tipi di attività sportive, come gli sport da combattimento e/o le arti marziali in generale ed il karate in particolare, in cui l’aggressione dell’avversario – seppure controllata – fa parte integrante della stessa attività sportiva agonistica; in questo caso la scriminante del “rischio consentito” opera solo ove vengano rispettate le regole del gioco e la competizione avvenga tra atleti della stessa caratura (professionisti o appartenenti alla stessa categoria di grado e di peso), senza l’uso di colpi “proibiti” su bersagli non analiticamente elencati nei regolamenti .

Ne scaturiscono alcuni principi fondamentali:

1. Maestri, Istruttori ed Allenatori devono adottare ogni cautela organizzativa e disciplinare al fine di evitare possibili danni;

2. tale vigilanza deve in ogni momento essere adeguata all’età, al grado di formazione sportiva ed alla maturità degli allievi (cfr. Cass. 27/3/1984, in cui si è affermata la responsabilità di Istruttori di minori durante un corso di insegnamento per non aver fornito prova liberatoria idonea a superare la presunzione di responsabilità ai sensi dell’art. 2048 cod. civ. e Cass. 6/5/1986, n. 3031);

3. conseguentemente lo svolgimento di gare tra atleti appartenenti a categorie diverse determina di per sé la violazione delle regole cautelari;

Tutto ciò sul presupposto che, nonostante la mancata violazione di leggi e regolamenti, “…è sempre in “colpa” chi, in relazione all’attività svolta, avrebbe dovuto adottare cautele in grado di impedire o neutralizzare i rischi per l’altrui incolumità e per tale “colpa” risponde della realizzazione di quei rischi…” (Cass. Pen. 2/2/2000, in dir. Pen e proc., 2000, pag. 612).

11. Il “dolo”

I dolo è il criterio normale di imputazione soggettiva per i delitti; nessuno può infatti essere punito per un fatto preveduto dalla legge come delitto, se non l’ha commesso con “dolo”, salvi i casi di delitto preterintenzionale o colposo espressamente preveduti dalla legge (cfr. art. 43, I comma, codice penale).

Si ha dolo quando il soggetto agisce con coscienza e volontà (rappresentazione e realizzazione dell’evento voluto da parte dell’agente); coscienza e volontà che devono ricadere su ogni elemento costituente il fatto tipico.

Se la condotta di gioco non è solo finalizzata al risultato sportivo, ma è rivolta ad altre deprecabili finalità avulse dal gioco, allora il reato sarà doloso; il “dolo” ricorre pertanto quando la circostanza di gioco è solo l’occasione dell’azione volta a cagionare lesioni, sorretta dalla volontà di compiere un atto di violenza fisica, per ragioni del tutto estranee alla gara o per pregressi risentimenti personali.

Una responsabilità per “dolo” sarà quindi ravvisabile o quando la gara sia solo l’occasione dell’azione volta a cagionare l’evento oppure quando il comportamento posto in essere dal giocatore autore del fatto lesivo non sia immediatamente rivolto all’azione di gioco, ma piuttosto ad intimorire l’antagonista ed a dissuaderlo dall’opporre un qualsiasi contrasto oppure a punirlo per un fallo involontario subito (il c.d. “fallo di reazione” è piuttosto frequente anche in competizioni di elevato livello sportivo).

In tutti e due i casi, la condotta dell’atleta va oltre gli schemi tipici del gioco e la violazione delle regole non è diretta in via immediata al compimento di una azione di gioco, ma al perseguimento di altri fini del tutto estranei alla competizione o, se connessi alla stessa, non perseguibili perché illeciti.

Le lesioni derivanti da condotte “volontarie” devono avere comunque una risposta sanzionatoria in sede penale, sia pure per sola “colpa” (cfr. Cass. Sez. IV Pen. Sent. 2286/2000).

12. Il “dolo eventuale”

Il “dolo” in caso di lesioni personali è “generico”, essendo sufficiente l’intenzione di infliggere all’altrui persona una violenza fisica, e chiaramente può manifestarsi anche nella forma del “dolo eventuale”.

Il dolo eventuale è una peculiare forma di manifestazione del dolo che si caratterizza per il fatto che il risultato della condotta non è voluto in via diretta come conseguenza della propria azione od omissione, ma viene preveduto come una delle sue possibili conseguenze.

Ci sarà “dolo eventuale” tutte le volte che l’agente abbia previsto che il suo comportamento – magari violando il “Regolamento tecnico di Arbitraggio” – avrebbe potuto determinare in ipotesi un’offesa all’integrità fisica del soggetto passivo ed abbia agito anche solo a costo di cagionarla (cfr. Fidanca G. – Musco E., “Diritto Penale” – parte generale, Bologna, 2001, pagg. 105 ss).

E’ il caso, ad esempio, di un automobilista che, per sfuggire ad un controllo di polizia, si da alla fuga d folle velocità (oltre 100-110 km/h), nel centro abitato di Roma, oltrepassando, senza decelerare, una serie di semafori con luce rossa fino a provocare un sinistro mortale (cfr. (Cass. pen. Sez. I, Sent., ud. 1° febbraio 2011, sentenza 15 marzo 2011, n. 10411).

Ma può essere anche il caso di un atleta molto forte che, in un combattimento di karate (“kumite”), in gara o peggio ancora in allenamento, effettua tutte le tecniche di calcio e di pugno con la massima potenza e senza controllo, pur avendo di fronte un avversario più debole che potrebbe non essere in grado di pararli o di evitarli, accettando così come “eventualmente possibile” (anche se non voluto) un contatto eccessivo, causa di lesioni personali anche di grave entità.

Risponderà pertanto a titolo di “dolo eventuale” anche l’atleta – o il karateka – che agisca non con la volontà di ledere l’integrità fisica dell’avversario, ma fermamente convinto della sua abilità sportiva, ma accettando il rischio concreto di provocare lesioni all’avversario.

Quando si verificano tali eventi “il giudice che dovesse decidere se sussiste o meno il reato di lesioni personali, si porrebbe questa domanda: l’atleta medio in quelle circostanze si sarebbe rappresentato il rischio e lo avrebbe accettato? Ovvero, pur rappresentandosi il rischio, sarebbe stato certo di non cagionare l’evento? (cfr. S. CANESTRARI, “Dolo eventuale e colpa cosciente. Ai confini tra dolo e colpa nella struttura delle tipologie delittuose”, Milano, Giuffrè, 1999, pag. 153 e ss.).

13. La “colpa cosciente”

Altra ipotesi è invece quella della “colpa cosciente” che si configura ogni qualvolta l’agente, pur essendosi rappresentato l’evento come possibile, abbia agito nella convinzione errata e/o colpevole che l’evento non si sarebbe comunque verificato, vi sarà “colpa cosciente” poichè, appunto, la verificazione dell’evento nella mente dell’agente viene percepita come mera ipotesi astratta e non come concretamente realizzabile.

La caratteristica principale di questa fattispecie criminosa è la mancanza di volontà dell’evento; per cui è lecito affermare che la “colpa cosciente” si differenzia dalla “colpa” in generale, in quanto l’agente si rappresenta e prevede il risultato offensivo e, tuttavia, anche se erroneamente, ritiene con certezza che detto risultato non si verificherà come conseguenza della propria azione od omissione (cfr. art. 43 codice penale).

In tale prospettiva, la “colpa cosciente” o con previsione si distingue dal “dolo eventuale” sotto il profilo dell’atteggiamento psicologico dell’agente in quanto, mentre, con riferimento alla “colpa cosciente”, l’agente non accetta il rischio del verificarsi dell’evento lesivo, il cui possibile accadimento viene anzi erroneamente esclude, nel caso del “dolo eventuale” il risultato offensivo viene preveduto come possibile conseguenza dell’azione o dell’omissione e, ciononostante, l’agente pone in essere la condotta accettando il rischio di delinquere.

L’atleta/karateka è così sicuro delle sue capacità che è certo di riuscire a controllare ogni suo colpo senza mai ledere l’integrità fisica dell’avversario oppure il pilota di formula 1 è così convinto della sua abilità alla guida di un automobile che pensa di poter sfrecciare ai 100 all’ora in pieno centro abitato, riuscendo a schivare qualsiasi mezzo e/o pedone gli si ponga davanti.

14. La “colpa”

Un reato “è colposo, o contro l’intenzione, quando l’evento, anche se preveduto, non è voluto dall’agente e si verifica a causa di negligenza o imprudenza o imperizia, ovvero per l’inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o discipline” (cfr. art. 43, II comma, codice penale).

Se l’atleta viola involontariamente le regole del gioco o il “Regolamento di Arbitraggio per le gare di Karate” e le conseguenze lesive sono frutto esclusivamente all’ansia di risultato o è frutto di un ardore agonistico, il reato sarà colposo; più precisamente, “se il fatto si verifica nel corso di una azione di gioco ed il mancato rispetto delle regole del gioco è, in realtà, dovuto all’ansia di risultato, certamente il fatto avrà natura colposa”.

Quando cioè la violazione delle regole avviene nel corso di un’ordinaria situazione di gioco/gara, il fatto avrà natura “colposa”, in quanto la violazione consapevole è finalizzata non ad arrecare pregiudizi fisici all’avversario, ma al conseguimento in forma illecita – e dunque del tutto antisportiva – di un determinato risultato agonistico, salva, ovviamente, la verifica in concreto che lo svolgimento di un azione o combattimento non sia stato che mero pretesto per arrecare, volontariamente danno all’avversario.

15. Il “danno ingiusto”

Nel nostro ordinamento giuridico viene considerato danno ingiusto qualunque lesione di interessi tutelati dall’ordinamento giuridico.

Non tutti gli interessi sono rilevanti giuridicamente, il risarcimento del danno è ammesso soltanto per la lesione di interessi altrui che costituiscono un “danno ingiusto”.

Il requisito dell’ingiustizia del danno va, dunque, riferito alla condotta lesiva e non agli interessi protetti.

Attraverso l’evoluzione giurisprudenziale e l’elaborazione della dottrina, la limitazione ai diritti assoluti delle posizioni giuridiche tutelate nell’ambito della responsabilità extracontrattuale viene superata attraverso l’interpretazione estensiva della nozione di danno ingiusto.

La giurisprudenza ha, infatti, considerato il danno ingiusto come una clausola generale sulla base della quale individuare le posizioni che, di volta in volta, risultavano meritevoli della tutela aquiliana.

La giurisprudenza ha, così, individuato nuove posizioni giuridiche suscettibili di tutela, come il diritto all’integrità del patrimonio, il possesso, le aspettative e gli interessi legittimi (cfr. Cass. Civ. Sez. Un. Sent. n. 500 del 22 luglio 1999).

In tema di lesioni cagionate nel contesto di un’attività sportiva, soltanto nel caso in cui venga posta a repentaglio coscientemente l’incolumità del giocatore, che legittimamente si attende dall’avversario un comportamento agonistico anche rude, ma non esorbitante dal dovere di lealtà fino a trasmodare nel disprezzo per l’altrui integrità fisica, si verifica il superamento del cosiddetto “rischio consentito”, con il conseguente profilarsi della responsabilità per dolo o per colpa (cfr. Sez. 5, n. 9627/92, imp. Lolli, RV. 192262; in tal senso cfr. anche Sez. 5, n. 1951/2000, ud. 2/12/1999, imp. Rolla, RV. 216436).

Quando poi il fatto lesivo si verifica perché il giocatore viola volontariamente le regole del gioco disattendendo con cieca indifferenza per l’altrui integrità fisica o addirittura con volontaria accettazione del rischio di pregiudicarla (c.d.”dolo eventuale) i doveri di lealtà verso l’avversario, caratteristica essenziale di ogni sportivo, allora in caso di lesioni personali il fatto non potrà rientrare nella causa di giustificazione, ma sarà penalmente perseguibile per comportamento colposo o per comportamento doloso”.

La differenza tra responsabilità colposa e dolosa si accentra dunque sull’indagine psicologica in ordine alle motivazioni che hanno spinto l’atleta a violare le regole del gioco – volontarie o involontarie, prevedibili o imprevedibili, etc. – così da causare una lesione personale all’avversario.

16. Le lesioni personali: cenni

Nel nostro ordinamento giuridico le lesioni personali sono regolate dall’art. 582 del Codice penale italiano secondo cui : « Chiunque cagiona ad alcuno una lesione personale, dalla quale deriva una malattia nel corpo o nella mente, è punito con la reclusione da tre mesi a tre anni. Se la malattia ha una durata non superiore ai venti giorni e non concorre alcuna delle circostanze aggravanti previste negli artt. 583 e 585, ad eccezione di quelle indicate nel n. 1 e nell’ultima parte dell’articolo 577, il delitto è punibile a querela della persona offesa. »

Oggetto del reato in questione è la lesione personale inflitta ad uno o più soggetti, dalla quale deriva una “malattia”, che consiste in un’alterazione anatomica o funzionale dell’organismo ovvero un processo patologico, acuto o cronico, localizzato o diffuso, che determina una apprezzabile menomazione funzionale dell’organismo (Antolisei, in “Diritto penale – parte speciale”).

Secondo la giurisprudenza prevalente e consolidata rientrano nella nozione di “malattia” anche i graffi, le escoriazioni, le contusioni, gli svenimenti, gli stati di choc, etc., perché non si esauriscono in una sensazione di dolore (come ad esempio nel caso delle percosse), ma causano comunque delle alterazioni anatomiche organiche e/o patologiche.

Le “lesioni personali” si distinguono in:

a. volontarie, per le quali, come abbiamo già avuto modo di esaminare, il “dolo” deve essere supportato dalla volontà e prevedibilità dell’evento, ed è pertanto previsto in ogni situazione nel quale il reo prevede che la sua azione possa determinare un pregiudizio all’integrità personale del paziente, decidendo comunque di ottenerlo come fine o costo e

b. colpose, che sono descritte nell’articolo 590 del codice penale, in base al quale possono essere:

b1. “lievissime”: se conducono ad una malattia o incapacità di svolgere attività di vita quotidiana per un tempo non superiore a 20 giorni (“delitto” perseguibile a querela della persona offesa per il quale è prevista la pena della reclusione fino a 3 mesi o con la multa fino a euro 309, se colposo, e della reclusione da 3 mesi a 3 anni, se doloso o volontario);
b. “lievi”: se conducono ad una malattia o incapacità di svolgere attività di vita quotidiana per un tempo non tra i 21 e i 40 giorni (“delitto” perseguibile d’ufficio per il quale è prevista la pena della reclusione fino a 3 mesi o con la multa fino a euro 309, se “colposo” e della reclusione da 3 mesi a 3 anni, se “doloso” o volontario);

c. “gravi”: se dal fatto (colposo) deriva una malattia o incapacità di svolgere attività di vita quotidiana per un tempo superiore ai 40 giorni oppure una malattia che metta in pericolo la vita della persona offesa oppure, ancora, se il fatto produce l’indebolimento permanente di un senso o di un organo (“delitto” perseguibile d’ufficio per il quale la pena della reclusione da uno a sei mesi o della multa da euro 123 a euro 619, se “colposo” e della reclusione da 3 a 7 anni, se “doloso” o volontario);

d. “gravissime”: se la malattia è insanabile, oppure hanno provocato la perdita di un senso o di un organo, una mutilazione che rende inservibile un arto, una disfunzione grave della favella, uno sfregio (cicatrice visibile che altera i movimenti mimici) od una deformazione (menomazione che provoca ribrezzo in chi guarda) del volto o la perdita della capacità di procreare (“delitto” perseguibile d’ufficio per il quale la pena della reclusione da 3 mesi a 2 anni o della multa da euro 309 a euro 1.239, se “colposo” e della reclusione da 6 a 12 anni, se “doloso” o volontario).

17. Conclusioni : perché vanno adottate maggiori cautele durante una esibizione o un allenamento

Desidero concludere questa breve disamina con un accenno ad un recente orientamento giurisprudenziale che ritengo che immagino che tutti i Maestri e gli Istruttori e tutti gli allievi conoscano bene.

Una parte della giurisprudenza ha interpretato la normativa penale nel senso che l’attività sportiva nel caso di esibizione o allenamento richiede nel comportamento dei contendenti una maggiore prudenza e cautela per evitare non necessari pregiudizi fisici all’avversario e quindi un maggior controllo dell’ardore agonistico e della forza e velocità dei colpi; ciò appare necessario anche nell’ipotesi di combattenti di diversa esperienza e capacità e privi dei consueti mezzi di protezione che si utilizzano nelle competizioni agonistiche.

Solo nella ricorrenza di dette condizioni di comportamento (minore ardore, protezioni, controllo dei colpi, adeguatezza dei colpi alle capacità e all’esperienza dell’avversario, etc.) si può invocare la causa di giustificazione idonea ad escludere l’antigiuridicità della condotta di per sé penalmente illecita (cfr. Tribunale Civile di Roma, 4/4/1996).

“Nel caso di attività sportiva esplicantesi non in un competizione, bensì in una esibizione o in un allenamento, i contendenti debbono pertanto usare particolare prudenza diligenza per non travalicare i limiti concessi a siffatte modalità di pratica sportiva, caratterizzata da una minore carica agonistica, da un maggior controllo delle manifestazioni di violenza agonistica e della velocità dei colpi, con specifico riferimento alla capacità di esperienza dell’avversario ed ai mezzi di protezione in concreto utilizzati” (cfr. Cass. Pen. sez. IV, sentenza 7 ottobre 2003, n. 39204: distingue le attività sportive agonistiche da quelle attività amatoriali).

“Funzione tipica dell’esibizione-allenamento è infatti essenzialmente, nella disciplina del karate, il reciproco studio dei colpi e della tecnica sportiva per un complessivo miglioramento e coordinamento dei movimenti propri della disciplina stessa; mentre la competizione agonistica è caratterizzata dalla specifica finalità di dominare l’avversario utilizzando ogni movimento e colpo regolarmente idonei a renderlo inerte”.

Pertanto la condotta dannosa tenuta in allenamento o durante un’esibizione dovrà essere valutata con maggior rigore ad un’analoga condotta tenuta in gara.

Per approfondimenti:

(Altalex, 4 novembre 2013. Articolo di Marcello Pastrengo)

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[1] L’ordinamento sportivo nazionale è costituito da tutto il sistema che fa capo al Comitato Olimpico Nazionale Italiano (CONI) , il quale, a sua volta, fa capo all’ordinamento sportivo internazionale, che è costituito da tutto il sistema sotto l’egida del Comitato Olimpico Internazionale (CIO).

[2] Art. 1218 codice civile “Responsabilità del debitore” : Il debitore che non esegue esattamente la prestazione dovuta è tenuto al risarcimento del danno, se non prova che l’inadempimento o il ritardo è stato determinato da impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile.

[3] Art. 2048 codice civile “Responsabilità dei genitori, dei precettori e dei maestri d’arte”: “Il padre e la madre , o il tutore , sono responsabili del danno cagionato dal fatto illecito dei figli minori non emancipati o delle persone soggette alla tutela , che abitano con essi. La stessa disposizione si applica all’affiliante.

I precettori e coloro che insegnano un mestiere o un’arte sono responsabili del danno cagionato dal fatto illecito dei loro allievi e apprendisti nel tempo in cui sono sotto la loro vigilanza.

Le persone indicate dai commi precedenti sono liberate dalla responsabilità soltanto se provano di non avere potuto impedire il fatto”.

[4] Art. 2047 codice civile “Danno cagionato dall’incapace”: “In caso di danno cagionato da persona incapace d’intendere o di volere, il risarcimento è dovuto da chi è tenuto alla sorveglianza dell’incapace, salvo che provi di non aver potuto impedire il fatto.

Nel caso in cui il danneggiato non abbia potuto ottenere il risarcimento da chi è tenuto alla sorveglianza, il giudice, in considerazione delle condizioni economiche delle parti, può condannare l’autore del danno a un’equa indennità”.

[5] Art. 2043 codice civile “Risarcimento per fatto illecito” : “Qualunque fatto doloso o colposo, che cagiona ad altri un danno ingiusto, obbliga colui che ha commesso il fatto a risarcire il danno”.

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